“Il turbamento è ciò che ci rende vivi”

A Genova per ritirare il Premio Primo Levi, lo scrittore americano Jonathan Safran Foer ha richiamato la necessità di un impegno collettivo fondato sull'empatia per favorire un cambiamento: “Ogni atto di gentilezza è una cucitura nel tessuto lacerato del creato”
Scrittore e saggista statunitense noto per il suo stile originale e coinvolgente, Jonathan Safran Foer ha raggiunto il successo con il romanzo d’esordio “Ogni cosa è illuminata" (Guanda, 2002); scritto come tesi di laurea a seguito del viaggio intrapreso in Ucraina per svolgere ricerche sulla vita di suo nonno - ebreo coinvolto nelle persecuzioni naziste - è un’opera che stravolge i canoni classici del romanzo, portando il lettore in un viaggio intimo nei concetti di memoria e identità. Il libro, premiato con il National Jewish Book Award e il Guardian First Book Award, è poi diventato un film. Stessa sorte è toccata anche al suo secondo romanzo, "Molto forte, incredibilmente vicino" (Guanda, 2005), volume che racconta la storia di un bambino che ha perso il padre nella tragedia dell’attacco alle Torri Gemelle di New York; nella trasposizione cinematografica, i ruoli sono affidati agli attori Tom Hanks e Thomas Horn. Alla produzione letteraria - che contempla anche il romanzo “Eccomi” (Guanda, 2016) - sono seguiti i saggi "Se niente importa-Perché mangiamo gli animali?" (Guanda, 2009) e "Possiamo salvare il mondo, prima di cena" (Guanda, 2019), in cui l’interesse dello scrittore si è spostato sul piano etico e ambientale, affrontando i temi dell’allevamento industriale e delle scelte alimentari: due opere che fanno appello alla responsabilità collettiva nel ripensare il nostro rapporto con l’ambiente. Tale impegno gli è valso anche il premio “Primo Levi 2025”, assegnato lo scorso 11 maggio dal Centro culturale Primo Levi di Genova presieduto da Alberto Rizzerio. La motivazione evidenzia il filo rosso che intercorre tra l’eredità del grande scrittore torinese e la capacità di Safran Foer di parlare alle generazioni attuali richiamando i concetti di memoria e resilienza. È in questa occasione che lo abbiamo incontrato.
In "Possiamo salvare il mondo, prima di cena" lei riflette sull'urgenza della crisi climatica, suggerendo che piccoli cambiamenti nelle nostre abitudini quotidiane, come consumare meno carne e proteine animali, possano avere un impatto significativo. Ma anche il mondo scientifico è al lavoro per trovare soluzioni efficaci alla questione ambientale; ha fiducia nella ricerca? Qual è il suo rapporto con la scienza?
Vede, sei mesi fa avrei risposto diversamente a questa domanda. Il progresso scientifico è legato ai finanziamenti, e oggi quello che il mio Paese rischia è una cancellazione totale dei fondi. C’è da chiedersi se la ricerca ambientale stessa avrà un futuro nei prossimi tre anni. Circa i risultati che la comunità scientifica potrà ottenere è difficile fare previsioni: non sappiamo dove ci porterà la conoscenza, magari un giorno l’Intelligenza artificiale produrrà una soluzione per risolvere definitivamente la crisi ambientale. Certo è che la soluzione passerà da un cambiamento, e questo può avvenire solo se si condividono, sia a livello di cittadini quanto a livello di istituzioni, nuova cultura e nuovi valori: due elementi imprescindibili per realizzare quel coinvolgimento, o engagement, che è necessario a ogni svolta.
I suoi romanzi e saggi sono tradotti in tutto il mondo. Ritiene che la letteratura possa favorire un “risveglio delle coscienze”?
A livello razionale è evidente che non possiamo attribuire alla letteratura un potere particolare; eppure, è un fatto che nella storia molti cambiamenti sono stati indotti da suggestioni di tipo culturale: dalla musica, al cinema, dai libri alla televisione. Sono ottimi mezzi per creare un “turbamento” nelle persone, ed è questo è che ci serve per stimolare una presa di coscienza e, quindi, un cambiamento. Oggi sono qui per ritirare un premio intitolato al grande scrittore italiano Primo Levi: ebbene, lui non ha scritto per intrattenerci, ma per turbarci, consapevole del fatto che le atrocità della storia iniziano con l’indifferenza. Essere turbati significa essere vivi, è la risposta immunitaria dell’anima. Specularmente, nella poesia “The arithmetic of compassion” del polacco Zbigniew Herbert, ci viene ricordata la difficoltà dell’essere umano a provare compassione ed empatia di fronte a tragedie con tante vittime, ma in qualche modo percepite distanti: un “intorpidimento psichico” che ha implicazioni in molte situazioni, come la nostra risposta alle crisi dei rifugiati, all’emergenza dei senza tetto… e ai cambiamenti climatici. Guardare senza vedere è corrosivo per i nostri cuori: dobbiamo permettere al mondo di metterci in disordine.

Credits: Emanuele Dellostrologo
Se potesse rivolgere un appello ai giovani per richiamarli a questo tipo di impegno, che parole userebbe?
Userei le parole del pontefice recentemente scomparso, papa Francesco, che ha più volte messo in guardia dalla “globalizzazione dell’indifferenza” e ribadito la necessità di una “rivoluzione della tenerezza”: chi agisce animato da compassione e tenerezza farà sempre la cosa giusta. Ma chi insegna questi valori, oggi, ai nostri giovani? Il più grande dei miei figli, di 19 anni, segue vari corsi al college - fisica, psicologia, letteratura francese o…storia di Instanbul -, ma nessun corso prepara ad accogliere questi valori nella vita. Dovremmo ritualizzare la gentilezza, il suo apprendimento. Perché non prevedere ad esempio la possibilità di svolgere un anno di volontariato in un’attività al servizio delle persone? Con riferimento all’ambiente, poi, abbiamo una responsabilità morale precisa: abbiamo fatto sì che le giovani generazioni diventassero i soggetti del più pazzo esperimento scientifico del mondo, un esperimento che si gioca su tutto il Pianeta, e di cui sappiamo già l’esito. Un esito che, incredibilmente, non ci interessa né ci coinvolge nel profondo. È una situazione che ha del paradossale, come se fossimo di fronte alla nostra casa in fiamme e vedessimo i pompieri accanto ad essa ma completamente ubriachi. Ecco, noi siamo quei pompieri. E siamo ubriachi.
Da alcuni mesi ha scelto di vivere in Italia, a Roma, perché?
La risposta è fin troppo semplice, più complicato sarebbe rispondere a “perché non torno negli Stati Uniti”. Ci sono delle motivazioni personali come il fatto che mia moglie è di origine italiana, ma c'è anche altro: Roma può sembrare l’esatto opposto di una città moderna ed efficiente, eppure in essa ho ritrovato valori importanti, anche nelle piccole cose e nel vivere quotidiano. Io misuro il grado di civiltà di una nazione con il modo in cui vengono trattati i bambini e i cani, non esiste un posto al mondo in cui siano trattati con più empatia e delicatezza. Qui capita che anche i passanti salutino o tocchino un bambino, e mi piace che i miei figli più piccoli vivano immersi in questo ambiente. Così come mi piace l’abitudine a mangiare piano, o il fatto che le piazze siano luoghi in cui giovani e anziani si ritrovano seduti assieme; quasi ogni giorno, ad esempio, passo del tempo in piazza Testaccio, magari non succede niente di interessante, ma è piacevole. Fino a poco tempo fa abitavo a New York, in un appartamento che aveva all’esterno una grande siepe: ne ero in qualche modo ossessionato, sempre a controllare se cresceva, se aveva bisogno di acqua, se dovevo potarla, una metafora perfetta di una vita chiusa, e per me l’esatto contrario del concetto di “piazza”.
In più occasioni ha ribadito l’importanza delle “storie” come mezzo per trasmettere, anche oggi, l’identità ebraica; è sempre di questo parere?
Sì, anche se sono molto realista verso il mio lavoro e consapevole del fatto che, con il passare del tempo, le persone troveranno via via sempre meno interessante ciò che racconto, come è normale che sia. Forse se non facessi lo scrittore il mio senso di identità ebraica sarebbe più limitato: la scrittura agisce in questo senso come uno specchio, e mi sorprende sempre vedere quanto possa far emergere aspetti così profondamente radicati in me.